Una lettura facile e velocissima, di toccante chiarezza. Un racconto breve dove Niccolò Amminiti con poche pennellate ci descrive l’adolescente turbato dal suo impatto con il mondo. Una donna, legata a lui con quei lacci contorti delle nuove famiglie allargate, segnerà il suo buttarsi nella vita. Zoppicante, ferito dai sentimenti dell’esserci, impregnato dell’odore di appiccicaticcio di queste relazioni che ci fanno stare al mondo, l’adolescente crescerà immediatamente nell’esperienza del pensare all’altro, del prendersene cura. Non più chiuso nel suo fantasticare che lo porta a presentarsi con la vita che non c’è.
In una nuova versione kafkiana, l’adolescente di Ammaniti si ritrova ad essere definito dai marchi d’oggi impressi sulla pelle, unici elementi chiaramente riconoscibili in questa cortina di fumo in cui ci avvolgiamo per non riconoscerci più, per prendere le distanze da noi. “Una notte ho avuto un incubo da cui mi sono svegliato urlando. Scoprivo chela maglietta e i jeans erano la mia pelle e le Adidas i miei piedi. e sotto la giacca dura come un esoscheletro si agitavano cento zampette da insetto”. Egli riconosce la propria polpa interna, che deve essere ancora domata, tenuta insieme da quell’involucro corazzato miracolosamente sopravvissuto all’infanzia e alla pubertà, ma non più utilizzabile nel solitario rendiconto della quotidianità da adulto.
“Poi un giorno, mentre stavo in camera con gli scarponi nuovi ai piedi, lo sguardo è finito sullo specchio attaccato all’anta dell’armadio e ho visto riflesso un ragazzino in mutande, bianchiccio come un verme, con le gambe che sembravano ramoscelli, con quattro peli addosso, con un toracetto e qui ridicoli cosi rossi ai piedi, e dopo mezzo minuto in cui lo osservavo con la bocca semiaperta gli ho detto: – Ma dove vai? E il ragazzino nello specchio mi ha risposto con una voce stranamente adulta: – Da nessuna parte.“